Dalla puntata del 13 marzo 2022 di Vita nei Campi, di Rai Radio 1 del Friuli Venezia Giulia, l’intervento di Cristina Micheloni. Qui puoi sentire l’intera puntata del programma.
Dai giornali e dai media riecheggia la preoccupazione per gli aumenti del prezzo delle “commodities” e per l’incertezza negli approvvigionamenti. Le commodities sarebbero quelle materie prime di origine agricola che non hanno più la dignità per essere chiamate come tali e il cui valore di mercato è definito a livello globale e poco o nulla ha a che vedere con i loro costi di produzione. Esempi? Il mais, la soia, il frumento, il riso, girasole…. che poi diventano cibo e alimento zootecnico, riconquistando una minima parte della dignità perduta.
Talvolta divengono pure la base del Made in Italy o del “tipico e tradizionale”, ma questo non giova alla promozione e quindi meglio non dirlo.
Le commodities agricole hanno la dispettosa caratteristica di dipendere dalla stagione e si raccolgono solo una volta l’anno per emisfero. Il frumento o il girasole di cui si parla ora sono già stati raccolti la scorsa estate in Ucraina, Russia, Romania, Pianura Padana, Codroipo e Latisana, venduti dagli agricoltori a stoccatori ed industrie e da questi poi immessi sul mercato globale nel momento e al prezzo più opportuno (con tutte le ordinarie speculazioni del caso), stesso meccanismo per il mais (non quello da polenta che è poca cosa, ma quello da mangime, che deve essere a basso prezzo altrimenti gli allevamenti intensivi non stanno in piedi).
Ora, 15 giorni di guerra (cosa terribile a prescindere) tra due rilevanti fornitori di commodities e pare che rischiamo la fame. Tanto da provare a rimettere in discussione il cammino verso un minimo di agricoltura più efficiente e meno impattante, quella sostenuta dalla strategia europea Farm to Fork.
Tanto per chiarezza: i problemi ambientali ci sono ancora, la fertilità del suolo rimane a rischio, i nitrati continuano a rendere imbevibile l’acqua e l’uso irrazionale dei fitofarmaci riduce la biodiversità, così come il cambiamento climatico galoppa.
Quindi, invece che usare la scusa dell’emergenza bellica in Ucraina per giustificare lo status quo in Italia e continuare a fare quello che si è sempre fatto negli ultimi 50 anni, sia in agricoltura che nell’agro-industria, possiamo prendere l’occasione e la tangibile evidenza della fragilità dei nostri sistemi alimentari e rivederli in chiave non solo più ecologica ma anche più autonoma, nel senso di meno dipendente dai mercati globali e dalle loro connaturate incertezze.
Esempio concreto? Ha senso invitare gli agricoltori friulani a seminare più mais? Potrebbe anche averlo se…
- fosse messo in rotazione con altre 3-4 colture, in modo da assicurare la prevenzione delle micotossine e di altre note problematiche
- fosse traseminato con loietto o trifoglio e seguito da un bel sovescio di crucifere, in modo da evitare la lisciviazione dei nitrati, l’uso dei diserbanti e risparmiare sui costosi concimi azotati (russi o nord-africani che siano)
- fosse di ciclo non troppo lungo, in modo da essere seminato nel tepore del tardo aprile e sfuggisse così alla competizione delle malerbe
- fosse seminato su sodo o con minima lavorazione e non dopo aratura a 40cm (che tra l’altro richiede un sacco di gasolio!)
Ma questo non è il mais a basso costo e superficie concentrata che la mangimistica chiede.
Ergo: facciamolo un po’ di mais, ma per il mercato locale e magari per uso umano (non solo polenta, ma anche per cialde, prima colazione ecc.), facciamolo bio e proseguiamo nella transizione ecologica saggia e concreta, senza porgere orecchio -e men che meno dare retta- a chi ha la convenienza a continuare a running to stand still (“correre per restare fermi”) come cantavano gli U2.