di Andrea Giubilato – AIAB FVG
Articolo pubblicato sul Piccolo in data 23.12.2022
Sembra impossibile, per quanto sono diversi, ma tutti i radicchi che d’inverno impreziosiscono i nostri piatti, in origine erano delle piante di cicoria selvatica. La cicoria, dicono i botanici, si può incontrare allo stato spontaneo nell’area geografica EuroAsiatica e Africa settentrionale, noi oggi la possiamo riconoscere tra le erbe selvatiche quando camminiamo tra le pietre del carso o tra i vigneti del Collio e fin tra le appuntite rocce costiere Dalmate, prima di un tuffo nel blu dell’Adriatico. È facile riconoscerla, tra l’estate e l’inizio autunno, quando portati da rigide canne al mattino si aprono i fiori; sono di un colore vivace tra il blu e l’azzurro. In primavera, chi ha avuto come chef nella cucina di casa la nonna e non la tv, ancora va a raccoglierla per mescolarla con il tarassaco, il papavero, la crepide, il grespino, la silene, ecc., per cuocerla e trasformarla nel mix stagionale delle erbe cotte. Come sia potuto avvenire che da questa pianta di forma aperta con foglie verdi a bordo più o meno seghettato siano comparsi i radicchi, è una storia piena di meraviglie e tutta opera di quella diffusa intelligenza di cui erano dotati i vecchi contadini, in questo specifico caso, veneti. Gli ortolani di molti secoli fa, a scopo alimentare e attraverso la raccolta del seme delle piante con determinati caratteri (selezionate), hanno fatto esprime esteticamente in forme diverse la cicoria. Si tratta di uno di quei casi in qui l’uomo ha contribuito ad aumentare la biodiversità, che nel caso specifico va sotto il nome di biodiversità coltivata. Le prime note di quello che viene chiamato addomesticamento (dall’ambiente selvatico, alla coltivazione in orto) viene dal nome, quando da cicoria si è passati a chiamarla radicchio? Il rinascimento sembra il periodo in cui medici, botanici, scrittori, commediografi e perfino i preti, hanno iniziato a scrivere radicchio al posto di cicoria; i contadini, al tempo, non scrivevano. Ne ricordiamo uno per tutti, il primo prefetto dell’orto botanico di Padova (1546-1561) Luigi Squalermo che dice: “li radicchi si seminano negli orti, la selvatica è quella che nasce in campagna”.
Oggi sappiamo che capostipite di tutti i radicchi coltivati è il radicchio di Treviso tardivo, dal quale discenderebbero direttamente il Veronese e il Treviso precoce. Da un incrocio avvenuto nel 1700-1800 (il fatto non è documentato) tra il Treviso tardivo e l’indivia scarola, discendono invece i radicchi di Castelfranco, Chioggia e Lusia. E le nostre rose di Gorizia cresciute lungo l’Isonzo? Per prima cosa sono tra le più belle, tra le diverse tipologie: di forma aperta, categoria peso piuma e colori sgargianti dal rosso, rosa al giallo. A questi caratteri corrispondono specifiche delicate qualità organolettiche. A vederle di forma aperta con foglia rotondeggiante, sembrano derivare dalle forme ancestrali ottenute dall’incontro tra scarola e radicchio di Treviso tardivo, da cui, invece di ingrandire i cespi attraverso la selezione, si sono mantenute taglie più piccole puntando sull’eleganza più che sul peso. Rimane ancora da trattare la “cicoria zuccherina di Trieste” o “radiceto de primo taio” che nel suo intimo forse mantiene ancora la parentela selvatica, anche se da un ulteriore incrocio avvenuto in luogo con la rosa di Gorizia, potrebbe forse discendere il tipo di rosa dal color canarino.