IL VOLO DEL CARDO

21.02.2023

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di Andrea Giubilato – AIAB FVG

Articolo pubblicato sul Piccolo il 17.02.2023

Al solo sentire nominare il cardo il pensiero va al suo carattere spinoso e al dolore che ne deriva nel caso in cui ci sia capitato di accarezzarne una foglia. Oggi però non parliamo del cardo selvatico, ma di quello coltivato, cioè “addomesticato”, dove le spine si sono ridotte a favore delle foglie che sono la parte utilizzata in cucina. È il progenitore del più conosciuto carciofo con cui condivide la stessa area di origine, quella del mediterraneo. Anche il nome scientifico è condiviso e richiama un certo liquore digestivo, Cynara cardunculus; per distinguerli ci aiuta la varietà: il cardo padre è varietà sylvestris, mentre il figlio carciofo è scolymus.
Le dimensioni della pianta sono notevoli e possono variare da 0,4 a 3m, in natura il cardo è perenne, vizio che mantiene anche da coltivato ricacciando germogli da delle gemme situate alla base del fusto, anche dopo essere stato raccolto. La parte che mangiamo è la nervatura mediana della foglia, la “costa” che è bianca, carnosa, gentilmente amarognola e come gusto assomiglia al carciofo, oppure il contrario.
Per produrre un bel cardo bisogna piantarlo presto, deve essere seminato a maggio o trapiantato a metà giugno. La sua crescita è lenta e solo dopo la fine dell’estate raggiunge lo sviluppo fogliare giusto per iniziare il processo di imbianchimento. Tale tecnica ha lo scopo di rendere più tenere e bianche le nervature delle foglie centrali. Si tratta di legare, una volta strette tra di loro, tutte le foglie, meglio se rivestite di materiali che le proteggono totalmente dalla luce, a tale scopo si può usare del cartone o della paglia. Così protetto potrà più facilmente resistere alle brinate invernali, in modo da poter allungare, fino a tutto febbraio, il suo periodo di raccolta. Qualcuno, una volta chiuso, lo scalza con un po’ di radice e terra e lo interra in solchi scavati nel terreno sempre allo scopo di imbiancarlo e intenerirlo . Con il passare del tempo, perdendo parte dell’acqua si affloscerà e prenderà la tipica curvatura da cui il nome di “cardo gobbo”. Ma la parte più affascinante dei cardi sono i semi, quelli che si formano dopo le vistose, e apprezzate dagli insetti pronubi, infiorescenze organizzate in mega capolini. Il seme, chiamato achenio, di forma ovoidale e di colore marroncino, assomiglia a quello del tarassaco, quello che da bambini giocavamo a far volare in aria con un solo soffio tenendo stretto il gambo porta fiore. In questo caso il seme con il suo paracadute è dieci volte più grande e con capacità di volare per chilometri e chilometri. Tanto è, che quando l’Europa era stretta dai ghiacci, migliaia di anni fa, il cardo selvatico è migrato in nord Africa dove il clima era temperato. Poi allo sciogliersi dei ghiacci è ritornato a frequentare i nostri luoghi, forse gli è bastato prendere una corrente ascensionale e lasciarsi trasportare superando anche i mari per cadere in terra e poi germinare. Un volo antico e per ora a noi umani negato, ad emissioni zero di anidride carbonica.

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